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Tamerisco XII

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XII

 

Il riparo di Pietro. Una pericolosa missiva




 Alle nove del mattino di quel primo sabato di giugno il termometro della farmacia segnava ventotto gradi.

La giornata si preannunziava torrida. Sicuramente a mezzogiorno la temperatura avrebbe superato i trenta gradi.

Accompagnavo Adelina alla stazione: si recava dai genitori che avevano una casina sulle colline, ai piedi della montagna, dove si rifugiavano ai primi caldi. Le strade erano deserte, i parcheggi vuoti, la città viveva quell’ abbandono un po’ malinconico che la pervade ogni estate. Nelle piazze proditoriamente occupate dal calore e dalla luce regnava un silenzio surreale. Aspettammo la partenza del treno sul marciapiede del secondo binario con un gruppo di boyscout, tre anziane signore, una coppia di senegalesi silenziosi e statuari nei loro costumi. Quando il treno partì e l’ultimo vagone era sfilato via, vidi sul marciapiede di fronte un uomo che si sbracciava: “Ciao, come stai?”

“Ciao” Risposi.

Alto, la magrezza lo faceva ancora più alto, il viso grigio incorniciato da una lunga capigliatura e dalla barba incolta, rimasi per un buon minuto a guardarlo perplesso senza capire chi fosse. Lo riconobbi dalla peluria che copriva il dorso delle mani. Anche se non erano più ornate da anelli, le mani di Pietro erano inconfondibili. Dopo la festa al mare era sparito e nessuno degli amici l’aveva più visto. Attraversò il binario, mi strinse la mano con una cordialità e confidenza che non gli conoscevo.

 “Come te la passi?” gli domandai, ricordando la storia che Coito era venuto a raccontarci in biblioteca. 

“Sono stato un po’ in giro, ora abito qua vicino” Uscimmo dalla stazione, camminava precedendomi di qualche passo, guardandosi attorno con occhi inquieti 

“ Ho bisogno di parlarti, ho bisogno di te”

“Come hai fatto a sapere che sarei venuto in stazione?”

“Ti ho visto per caso con Adelina e ti ho seguito” Camminammo inseguiti dallo scalpiccio dei nostri passi.

“Vieni un minuto a casa, abito qui, in via Gorizia”

Girammo a sinistra e poi a destra in un vicolo ombroso, così buio che gli occhi, abituati alla luce del sole che a quell’ora era veramente abbacinante, ci misero parecchio tempo a distinguere un portone mezzo schiodato dal quale si accedeva a un piccolo cortile nel cui mezzo era un’aiuola cinta da una bordura vecchia e polverosa, occupata da pezzi di lamiera e sacchi di calce. A lato, in ombra, la statua di un paggio di grandezza naturale che teneva in mano una cornucopia. I muri antichi, il portone alto e spesso, il cortile, tutto portava lì dentro i segni dell’abbandono, della decadenza di una casa patrizia. 

“Ben conservato” dissi indicando il paggio “peccato che gli abbiano mozzato il naso”.

“ Questo palazzo appartiene alla famiglia della mia compagna, palazzo Pergamena. Erano molto ricchi, un tempo”.

Salimmo per una scala stretta odorante di chiuso e di muffa.

“Ho perso tutto, sai, tutto” recitava a bassa voce precedendomi di alcuni gradini. Arrivati sul pianerottolo aprì la porta. Entrammo in casa: nella penombra potei distinguere un divano sdrucito e un tavolo alquanto dissestato, che poteva essere del millesettecento, di quelli che si trovano in attesa di restauro nel retrobottega degli antiquari.

“Ecco, questa è la nostra casa, anzi il mio rifugio. Come puoi vedere ho perso tutto. Non posseggo nemmeno i vestiti che indosso”.

Parlava lentamente, ansimando. M’invitò a sedere sul divano ed entrò nella stanza accanto da dove sentii provenire il parlottare di una voce femminile.

Seduto sul divano, nel buio fresco di quella miserabile stanza, mi pervase una sensazione di dolce sollievo: la partenza di Adelina mi rasserenava. Saperla lontano da Gina mi restituiva la tranquillità che da alcuni giorni avevo perduto. A volte ero così nervoso che non riuscivo a fermare il tic che vibrava fastidiosamente sulla palpebra destra. Ero proprio stressato; non tolleravo che Adelina passasse le ore a posare da Gina, a chiacchierare o peggio ancora a fare chissà quale cosa. Quella era una fantasia che reprimevo con rabbia e di cui incolpavo me stesso. Un giorno, terminata finalmente l’opera, Gina venne a casa con la statuina: una ragazza nuda dalla pelle levigata e sensuale, in tutto perfettamente somigliante ad Adelina. Mentre Gina con le dita sapienti accarezzava il busto, le cosce e perfino le parti più intime della statuina, io dovevo essere visibilmente impallidito, perché Diego mi domandò se stessi male.

Altro che se stavo male! Ecco la conferma evidente, inconfutabile dei miei sospetti. Non erano fantasie, era verità, era realtà bella e buona!

La notte mi rigirai sul letto ripetendomi un discorso da fare a Adelina: un discorso duro, un rimprovero, forse di commiato.

Al mattino, in ufficio, andai alla sua scrivania: “Ho visto il ritratto” Dissi con voce che mi pareva seria, anzi severa.

“T’è piaciuto? Vero che mi assomiglia?” Disse con un’espressione ingenua che non poteva essere una finzione di quella testolina dolce e sbarazzina, su cui vibrava la frangetta nera come il piumino di una scopa.

“Ma hai posato nuda!”

“Quasi” 

“Non ti sei vergognata?”

Si mise a ridere “Veramente un poco si, almeno le prime volte” 

“Quanto nuda?” La mia voce fingeva ora un tono scherzoso, ma il cervello vigilava attento a ogni parola pronunciata da me e da lei in quel colloquio. Ero completamente disarmato: tutti i pensieri della notte, i discorsi che mi ero fatto, sembravano essere appartenuti a un incubo. Tuttavia, ogni volta che guardavo la statua, il sangue mi saliva alla testa. Una sera lei stava nuda sul letto ed io la confrontavo con la scultura ed era in verità atrocemente somigliante.

“Magari qualche volta c’era pure Diego ad assistere”

“Qualche volta” 

 “E tu eri nuda davanti a Diego!”

 “Nuda no! rideva, Diego c’era quando ero vestita, solo per il viso.”

Adesso era troppo, a quel punto mi assaliva il sospetto che se l’intendesse con Diego. Anzi la certezza. Che stupido ero stato! Come avevo potuto pensare che Adelina, così femminile, così completamente donna, potesse avere certe inclinazioni. Sicuramente era Diego a soddisfarla, quelle sere che veniva da me con gli occhi illanguiditi dal piacere.

Quell’uomo calvo, ben dotato di ormoni maschili, era sicuramente in grado di soddisfare due donne contemporaneamente; mentre io, che i capelli ce li avevo tutti, non ero capace di accontentarne una soltanto, in modo tale che non andasse a cercare altrove i piaceri di cui era carente.

Facevo questi pensieri quando una voce mi distolse dalle cocenti fantasticherie.

“Lei è l’amico di Pietro. E’ Piero, vero? Io mi chiamo Maria. Pietro mi ha parlato a lungo di lei. Ora è molto malato.” Disse, abbassando la voce: una voce calda e profonda, ma stentorea, come affaticata. Le pantofole stinte che un tempo furono rosa, una veste da camera di seta di buona qualità, che tanti anni fa doveva costare dei soldi, e che ora era lisa e scolorita, sotto cui promineva il ventre gonfio e teso, le braccia smagrite dove si potevano contare i muscoli e i tendini, le mani lunghe e sottili, le dita esili e delicate di un passato aristocratico. Il viso era di un pallore cinereo: sotto le palpebre violacee mi fissavano due occhi profondi, gialli e acquosi, infinitamente malinconici.

Mi riscossi dai pensieri sollevando il capo per vederla in controluce: alta, sovrastata da una capigliatura corta e bionda, quasi bianca, doveva esser stata molto bella prima che il vizio e la malattia le divorassero la carne. 

“E’ tanto che Pietro la segue, senza avere il coraggio di fermarla. Non vuole coinvolgerla in questa faccenda. Sa lei i rischi che corre?” Scossi il capo in segno di diniego “Non le ha detto niente, non sa nulla? Ebbene, glielo dirò io; Pietro si vergogna, ma, io dico, cosa c’è da vergognarsi, la verità è verità, non c’è nulla da tenere nascosto: Pietro ha perso tutti i suoi averi. La ditta è fallita e i creditori lo hanno spogliato di tutto. Questo sarebbe niente. Il peggio sono gli usurai che vogliono indietro i soldi a un  interesse altissimo, capisce? Più del duecento per cento. Non potendo Pietro saldare il debito, gli hanno messo alle costole una banda di assassini. Se lo trovano l’ammazzano!”

“Gli stessi che hanno minacciato Susanna?” 

“Conosce anche  Susanna?”

“Lavoravamo insieme in biblioteca. Ora lei è nascosta, non so bene dove. Così ci hanno riferito i Cabrini.”

“I Cabrini volevano pagare una parte dei debiti, ma Pietro non ha voluto, per orgoglio. Solo lei può aiutarlo adesso.”

“Che cosa posso fare?”  Pensavo con rincrescimento al mio miserissimo conto in banca frutto dei mensili del mio lavoro da bibliotecario.

“Consegni questa al commissario Tango. Qua c’è il numero di telefono. Lo impari a memoria e poi distrugga il biglietto. Mi raccomando, lo chiami da un telefono pubblico. Non si guardi mai attorno, quando esce da qui. Se lo stanno spiando e capiscono che ci aiuta uccidono pure lei. Sono spietati”.  Mi consegnò una busta voluminosa e un biglietto:- Tango Michele - Seguiva un lungo numero, evidentemente di un cellulare. Si era seduta sul divano. Sentivo il calore del suo ginocchio contro la mia coscia: era febbricitante. Rimase per un po’ di tempo immersa nei pensieri. “Pietro non vuole che qualcuno abbia a rischiare per lui. Mi raccomando un’altra cosa: non ne parli con la sua amica, non deve coinvolgerla, è troppo rischioso. Non so se avremo occasione d’incontrarci ancora. Io non esco più, la luce del sole mi fa morire. Devo vivere al buio per il resto dei miei giorni” Mi strinse la mano trattenendola a lungo. “ Sia prudente. Pietro non sta bene. Ha camminato e si è affaticato troppo. Lo saluterò io per lei” disse, vedendo che volgevo gli occhi verso la porta oltre la quale Pietro era scomparso e da cui erano giunte le loro voci. 

Quando uscii all’aria fresca del vicolo, fu come ritornare in superficie da un’immersione subacquea: la stessa sensazione di respirare finalmente aria buona e naturale. Mi avviai lasciandomi portare dalle gambe proprio come il sub dall’acqua, galleggiando rilassato.

Quando svoltai l’angolo, per prendere il viale soleggiato della stazione, mi ricordai la raccomandazione di Maria di non guardarmi attorno, perché potevo essere seguito. Se non mi avesse detto niente, non mi sarebbe passato per l’anticamera del cervello il pensiero di essere spiato, così non potei fare a meno di volgere gli occhi a destra e a sinistra, senza muovere il capo, dicendomi che dovevo essere naturale, e forse ero rigido e innaturale come una marionetta. Mi fermavo ogni tanto a guardare le vetrine, interessato di più a ciò che si specchiava sui vetri che alla merce esposta.

La città, come dissi, era deserta. Qualche persona dall’aspetto per bene camminava in strada: un’anziana signora in soprabito rosa, nonostante la calura estiva, aveva al guinzaglio un cane lupo con cui conversava come fosse stato un compagno; una giovane coppia andava a passo spedito verso la stazione ridendo rumorosamente. 




 

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